Zio Remo

Da Smemoranda, edizione

Statemi a sentire: in quell’estate del 1985 io avevo dieci anni, un naso a trampolino e uno zio che non era uno zio. Il naso mi era saltato fuori all’improvviso, e quanto allo zio, io e mio fratello lo chiamavamo così solo per far piacere a nostra madre, donna di manica larga, che con questa elemosina voleva risarcire il signor Remo Sprecacenere del cumulo di sventure che era stata la sua vita.
Il signor Remo si era sposato tre volte, la prima con una certa Flora che poi si era ammalata ed era morta, la seconda con una ballerina dominicana di night club che lo aveva lasciato in braghe di tela, la terza con una donna delle pulizie volgare e con la ricrescita, infine fuggita con un idraulico.
Aveva cominciato a frequentare casa nostra perché mio padre non sapeva imbiancare.

Nel giugno del 1985, durante una domenica di noia tragica e aggirandosi per casa in cerca di appigli, nostro padre aveva scoperto che l’intonaco della nostra camera da letto era in condizioni pietose. Per di più, dietro i mobili si snodavano vaste legioni di formiche che spadroneggiavano fino all’ingresso, folleggiavano sulla porta del bagno, rientravano a tarda notte e si infilavano in una cruna invisibile nel muro dietro il nostro letto a castello.
Per non venir meno al suo consueto, molesto vitalismo, si mise in testa di ridipingere e di dare quella che definì una bella “sistematina”: ci terrorizzò con propositi ambiziosi e ipotizzò che la domenica successiva si sarebbe svegliato all’alba e ci avrebbe cacciato tutti di casa.
Mia madre provò a protestare, ma venne zittita da un’ulteriore estensione di entusiasmo pratico che coinvolse anche la cucina, in un angolo della quale, in zona-forno, mio padre asserì di aver notato una tana di topi.
A quel punto, nessuno osò aggiungere una sola parola.

La domenica successiva, all’alba, io e mio fratello fummo svegliati da un facinoroso in canottiera e cappello di carta, in tutto e per tutto simile a nostro padre, con un torrente di imperativi che gli zampillava dalla bocca. E fece esattamente quanto aveva minacciato di fare: ci sfrattò da casa e la ingombrò con assi, secchi, pennelli, spatole e uncini.
Quando rientrammo, cioè verso le otto di sera, ci trovammo di fronte una scena deprimente: nostro padre era ancora in alto mare. E non che vi navigasse. Si aveva più l’idea del Titanic dopo l’impatto.
Un’impalcatura aveva ceduto nel mezzo e lui, che aveva un gomito sanguinante, era presumibilmente precipitato dal soffitto sopra i secchi della pittura – c’erano dei vuoti fracassati e una smisurata pozzanghera bianca che dilagava per tutta la stanza.

Al nostro invito per la cena rispose con un’imprecazione che screditò un buon numero di martiri, tuono in seguito al quale io e mi fratello, aggrappati l’uno all’altro, ci rifugiammo nell’unica stanza libera della casa: il balcone.
La camera da letto dei nostri genitori era ingombra di alcuni mobili della nostra, e il salotto fungeva da deposito materiali.
L’esito di tanta smobilitazione fu il signor Remo Sprecacenere. Non ancora nominato zio, ma più pomposamente: salvatore della patria.

Il signor Remo Sprecacenere si presentò in casa nostra la sera successiva.
Era un gigante.
Nostra madre lo accolse con festoso entusiasmo, ma cercò di contenersi per non offendere nostro padre.
Lui le disse: “I miei omaggi.” E le diede una manona.
Quella sera era venuto per un sopralluogo, per saggiare l’entità del disastro, valutare le contromisure e capire quanto ci sarebbe voluto.
Disse che quantificava in due giorni.

Così il signor Remo sprecò a casa nostra le prime quarantotto ore della sua settimana di ferie.
Nostro padre, dal giorno dell’insediamento e più o meno ogni ora e mezza, subissava nostra madre di martellanti telefonate sull’andamento dei lavori. Spesso, quando le sue descrizioni tecniche di donna senza vocabolario del mestiere lasciavano a desiderare, si faceva passare il signor Remo, lo rimbrottava circa i tempi di lavoro e gli sbraitava direttive.
Il signor Remo, con pazienza francescana, lo aggiornava in tempo reale, abbassava il telefono, sorrideva, ed elargiva garbati complimenti a nostra madre che, vergognandosi, gli preparava gloriosi panini imbottiti.
Lui non mancava di elogiarli a nostro padre ad ogni telefonata, ottenendo il solo risultato di esacerbarlo sempre più. E più nostro padre si esacerbava, più strillava. E più strillava, più nostra madre moltiplicava le proporzioni dei panini, che poi lui glorificava nella successiva telefonata.

Io e mio fratello amavamo osservare il signor Remo in silenzio, seduti sul pavimento del corridoio, alle soglie di camera nostra. Guardavamo questo estraneo che si muoveva esperto ed efficace nel regno privato dei nostri giochi e ne restavamo ipnotizzati – seduti come indiani, divisi tra il trionfalismo di nostra madre e la severità di nostro padre, non sapevamo che posizione prendere.
Tra l’altro, nostra madre e il signor Remo avevano scambiato quattro chiacchiere nelle sempre più frequenti pause del lavoro, e lui si era confidato, gratificato dalla dolorosa partecipazione che lei gli garantiva ogni qual volta che elencava le disgrazie che gli erano toccate. E dunque, giù coi resoconti privati: la speranza e la ballerina dominicana, la prima moglie e il maledetto male.
In breve, casa nostra si era trasformata in un equivoco confessionale, luogo di confidenze illegittime e di sapore fedifrago: nostra madre in cucina con un uomo che piangeva – “No, non piange,” diceva mio fratello chino alla serratura, “però le sta tenendo la mano” – e nostro padre, ignaro, al lavoro.

Alle quattro del secondo pomeriggio di lavoro, mentre Remo stava passando una seconda mano di pittura in salotto e nostra madre lo stava confortando con un panino ai cetrioli, cotoletta, maccheroni e maionese, io avevo fatto la spia e avevo denunciato il fatto che mio fratello lo bersagliasse con palline di carta appallottolate con la saliva. In disparte, mamma gli aveva spiegato che non si faceva, che quello era un uomo molto sfortunato. “La vita l’ha trattato molto male, e voi non avete diritto di prenderlo in giro. Cercate di volergli bene e chiamatelo zio.”
Quelle parole ebbero uno strano riverbero nelle nostre anime minorenni.
Remo era un uomo sfortunato. Triste. Solo. Con una settimana di ferie.
E stava lavorando per noi.

Da quel momento in poi io e mio fratello cominciammo a rispettare zio Remo molto più di quanto fosse richiesto. Ogni volta che aveva bisogno di un attrezzo, lo prevenivamo, ci facevamo in quattro per passarglielo e ci davamo a burrascose competizioni per chi ci arrivasse per primo. Remo allora prese l’abitudine di chiamarci per nome, a chiedere le cose rivolgendosi ora all’uno ora all’altro, e se di cose gliene serviva solo una, per non lasciare disoccupato nessuno e non alimentare sospetti di preferenze, inventava su due piedi una necessità e la affidava all’inerte di turno.
Quando suonava il telefono, nostra madre si presentava e si scusava per l’interruzione. Zio Remo si asciugava la fronte, posava il pennello di traverso sopra il secchio, ci affidava compiti di sorveglianza, e andava a farsene dir quattro da nostro padre.
Per noi era quasi un supereroe, perché con le mani faceva di tutto: tirava cavi della corrente, li sbucciava con un coltello, chiedeva a me le forbici grandi e a mio fratello il nastro isolante, e pian piano guariva la nostra casa.

Quando zio Remo finì di imbiancare e di sterminare formiche, annunciò che i lavori erano terminati.
L’ultimo giorno nostra madre gli preparò un panino coi fiocchi, un mattone di tre piani tutto prosciutto, carciofi e frittata, col grugno labbruto che spuntava da un tovagliolo rosso fuoco.
Avevamo tutti e quattro gli occhi lucidi.
Sta di fatto che zio Remo tornò il giorno dopo, inventandosi altre piccole cosette da controllare, per le quali, disse, non ci sarebbe voluto poi molto.

Invece ci volle poi molto, perché tornò anche il pomeriggio successivo e quello dopo ancora. Nostra madre ci impose di non dirlo a nostro padre e la settimana successiva ci iscrisse a scuola calcio e a judo.
Così noi non lo dicevamo, anche se sentivamo qualcosa di strano in tutto quello sport improvviso.
Un mese dopo, a cena, nostro padre elencò tutte le lacune e le approssimazioni di cui Remo si era macchiato e lo sorpresi con un cacciavite, a togliere di nascosto lo stucco dall’ingresso del formicaio dietro il nostro letto a castello, e tutto solo per accusarlo di essere stato sbrigativo e superficiale.
Gli telefonò mentre mamma sparecchiava e tirava su col naso. Volarono delle parolacce e andò a finire che ci cacciarono a letto e loro due si insultarono fino a notte tarda.
Il trambusto andò avanti per un bel po’, mentre le ore rimpicciolivano.
Al mattino mamma fece una valigia e io presi un brutto voto in geografia.