Vita immaginata di Raùl Rivero

Da Diario della Settimana,

Come puttane in Quaresima è il titolo di un romanzo di cui resta solo il titolo. Lo cominciai tre anni fa, a L’Avana, d’accordo con Omar Pérez, poeta cubano esiliato ora monaco zen in giro per l’Europa. Ne avremmo dovuto scrivere un capitolo ciascuno, e si sarebbe trattato di un ibrido tra romanzo e saggio, che avrebbe affrontato, nella cornice narrativa delle vicende di due Bouvard e Pécuchet contemporanei, tutti i nodi fondamentali che nella storia hanno allacciato la cultura italiana e quella cubana.
Tre anni e mezzo dopo, seduto su un divano squadrato di pelle rossa nel corridoio del primo piano di un albergo di Molde, piccola città a metà strada tra Trondheim e Bergen, in Norvegia, “come puttane in quaresima” è un’espressione che vola via dalla bocca di un divertito Raùl Rivero. Fondatore dell’agenzia Prensa latina, scrittore e poeta incarcerato fino ad aprile poi gentilmente invitato ad andarsene ma assurdamente trattenuto nonostante la regolare domanda di espatrio, ora risiede finalmente a Madrid, “in una casa troppo rumorosa per scrivere e troppo costosa per starsene tranquilli”.
Ma dovendo prima di tutto spiegare il significato dell’espressione, direi che è la condizione di chi sia costretto contro la sua volontà a una forma di repressione, mentre, al contrario, è “loco por salir”, ossia pazzo per scappar via, come chiosa Raùl con la sua voce grassa da sassofono.

Nonostante sia tardo agosto, fa freddo. Io ho un vestiario inadatto e passo le giornate in stazione eretta rannicchiata. Raùl, ravvolto in un più coerente maglione amaranto, morbidamente confortato dalla pura lana vergine, seduto con tutto il suo corpo a dilagare nello spazio circostante, è davanti a me che risponde con disponibilità simulatamente ritrosa alle domande della Radio Nazionale norvegese, e mi chiama spesso in causa. Siamo intervistati insieme, a margine del Festival, circa le condizioni della letteratura cubana. Conveniamo che si tratta di una diagnosi difficile: tanta letteratura cubana non esiste, eppure c’è, e tanta letteratura autoctona non è meno rimossa di quella che si scrive all’estero; poi ecco le mille forme dell’esilio (un esilio metafisico, anche): scrupolosamente attenta ad aggirare la Tematica delle Tematiche, una parte sempre più ampia di questa letteratura riposa nella rassicurante zona franca del romanzo di genere o non arriva nemmeno a godere del privilegio della mannaia, perché le ambizioni di contestazione tonfano di fronte alla lapide dei dati di fatto. “Dopo tutti questi anni,” racconta Raùl, “i cubani sanno già da soli cosa possono e non possono scrivere. È una letteratura fantasma, senza presente e senza futuro. Non Fidel Castro vivente.” Poi si corregge. Aggiunge: “Ma prima che qualcosa cambi, ne dovranno morire due, di Fidel Castro. Non sarà né semplice né rapido.”
La sera stessa, a cena, mentre si sottomette senza remore agli imperativi di un appetito gargantuesco, a proposito del Comandante (che lui ribattezza con un meno romantico Comediante), mi confessa: “Io sono felice, e sai perché? Perché so la ragione per cui lo odio.” Se fossi cubano, credo che gli invidierei questa consapevolezza, soprattutto perché la condizione dei suoi connazionali è quella di un grottesco complesso di Edipo che gli eventi non hanno contribuito a dissipare. Nel corso degli anni i cubani sono rimasti soli nella contemplazione del fallimento, ultimi a resistere nell’estremo margine del surreale, sopravvissuti a un’antistoria cui devono continuare a credere nonostante essi non ne abbiano scritto che una riga. Il tipo di reazione che ho visto in tanti di loro, relativamente a Fidel Castro, non riesce ad andare più in là di una contestazione adolescenziale, piena degli argomenti degli altri.

Raùl dice che a Cuba la vita è sempre più tesa. Che tutti sono controllati in maniera tanto capillare e snervante quanto più Castro sente di aver perso il controllo della situazione. “E ultimamente l’ha perso davvero. Circola molta droga, e un numero sempre più alto di persone vive ai margini della legalità.” Mi racconta che in nessun’altra parte del mondo sono codificate patologie psicologiche causate dall’influenza del partito nella vita quotidiana. “Il partito comunista cubano è la più grande impostura che esista,” conclude tranchant. Poi passa a ribadirmi le sue simpatie zapateriste. Dice che il governo sta facendo molto per gli omosessuali, persone che hanno sempre conosciuto solo la sofferenza, anche perché “a Cuba il machismo è sempre stata una piaga”. E il pensiero va al suo amico Reinaldo Arenas, l’autore del bellissimo Antes que anochezca – omosessuale perseguitato, incarcerato, torturato e infine scappato a New York a morire di Aids in pace. “La sua vita è stata un dramma: offeso dal suo Paese e da quello in cui è scappato. È sempre stato terribilmente solo. Nel suo libro, le pagine sulla sua vita americana sono drammatiche come quelle che parlano dell’Avana. Ogni tanto sento qualcuno dire di lui che era un debole, un pauroso. Non è così. L’ho visto fare a botte con gente grossa il triplo. Reinaldo – questo è il punto – non aveva paura di nessuno.”

Nei giorni in cui siamo stati insieme ho cercato di sapere altro, ma Raùl sembrava non voler raccontare. Mi ha invitato a pranzi, cene, colazioni, mi ha preso a braccetto e mi ha chiesto di accompagnarlo a fumare una sigaretta ogni dieci minuti, ma dava sempre l’impressione di voler sviare ogni ulteriore discorso.
Così gli racconto che negli ambienti che frequentavo io (scrittori con arte, quando c’era, ma di certo senza parte, con tessera di razionamento esaurita a metà mese), di lui si parlava come di un personaggio imprescindibile. Io non avevo letto nemmeno una sua poesia, eppure nessun altro nome mi è mai suonato tanto familiare come quello Raùl Rivero. L’ho sentito citare mille volte.
Lui mi sorride e tace. Il fatto è che taccio anch’io. Adesso che avrei la possibilità di chiedergli tutto quello che mi gira per la testa, penso, ecco che mi sento in difficoltà. Sono davanti a lui e non ho niente da dire. Sono intimidito? Forse è solo il rispetto che provo per lui, per gli abiti che indossa, per quegli occhi che hanno visto. Non saprei, però a un certo punto provo la sottile vergogna del turista che si commuove solo davanti ai monumenti. Perché fargli il torto di considerarlo un simbolo? E se lui non si sentisse affatto a proprio agio nella mia personale canonizzazione, dal tratto devozionale e un po’ aprioristico?
Allora scelgo di non chiedergli nulla. Lascio che sia lui a parlarmi di quel che gli va, che si senta libero. Che non debba essere per forza il Raùl Rivero che tutti si aspettano. Così mi parla delle tre figlie (una, adottata, sta a Madrid con lui; un’altra, sposata, vive a Miami da anni; l’ultima è ancora a L’Avana), e alla fine vuotiamo due bottiglie di vino mentre scherziamo con la cameriera. Gli lascio campo libero, e lui mi racconta mille storielle divertenti, una letteratura minore di perseguitati sc’vèickiani come quell’amico che, una notte, ubriaco, si stava dedicando a una sgangherata scritta su un muro che avrebbe dovuto recitare: “Abbasso Fidel!” Sorpreso da un poliziotto quando già aveva vergato “abbasso F”, alla richiesta di chiarire con quale stronzata avesse intenzione di decorare il pubblico mattone, prontamente, aveva risposto: “Dobbiamo smetterla con questi sporchi yankee del cazzo, compagno! Sto scrivendo Abbasso Flinton! Bill Flinton! Un vero stronzo, non trovi?”

Nei due giorni che ho avuto la fortuna di passare con lui, ho visto spesso Rivero guardarsi attorno, battere i denti ai rigori della tarda estate norvegese e osservare l’ordine del traffico e la compostezza delle persone. E una volta l’ho sentito dire: “Che tristezza vivere qui, non trovi? Un paese dove todo està resuelto.”
Io gli dico che un’ebbrezza del genere, pur transitoria, la vorrei provare. Lui mi risponde di no, che lo dico ma non è vero. E all’improvviso, dopo un vuoto profondo quasi un minuto, comincia a raccontarmi del giorno in cui la polizia ha fatto incursione in casa sua. Il computer strappato dal tavolo e le grida di sua moglie che non l’avrebbe più visto per due anni a partire da quel momento. “Due anni, ti rendi conto di tutto il tempo che ho perso? Me l’hanno rubato. Ci pensavo ogni giorno. Mi chiedevo: e se ora muoio? Riuscirò a scrivere la ultime poesie? Pensavo sempre alla morte, ossessivamente. Avevano mille modi, volendo, per ammazzarmi senza fare rumore. Che so, facendomi pestare da qualche guardia. Oppure avvelenandomi il pugno di riso che ho mangiato ogni giorno per settecento giorni. Quando andava bene, aggiungevano un pezzo di pane duro, verdolino. Appena liberato, sai quali sono state le prime due cose che ho fatto? Un pranzo come dio comanda, e scrivere tutte le poesie che avevo composto e imparato a memoria.” Mi dice di non aver fatto altro che ascoltare, quando era in galera. Di aver conosciuto mille persone, malati di Aids, malati di cancro, uomini come tanti altri finiti dentro per tragiche coincidenze. Mi racconta che la maggior parte di loro non l’ha nemmeno vista in faccia: si sedevano schiena contro schiena, divisi dal muro della cella, e quelli attaccavano a raccontare. E lui ascoltava. Ore intere. Al buio, o nell’afa dei pomeriggi. Perdendo la cognizione di un tempo che già non esisteva più.
“Non dormivo mai. Sentivo tutti i treni notturni della linea L’Avana / Pìnar del Rìo. Li contavo. Non sai quanta vita ho immaginato in carcere. Non lo puoi sapere se non ci sei stato.” Poi mi guarda e mi sorride. “La mia vita immaginata. Ti sembra un buon titolo, per la mia biografia?”

“Il 15 settembre devo consegnare il nuovo libro di poesie e ovviamente sono in ritardo. Ma vuoi la verità? Io penso che sia un diritto, quello di perdere tempo.”
Non ho mai teorizzato, gli dico, basi giuridiche per la perdita di tempo. Del resto sconto ascendenze lombarde e marchigiane, e una spigolosa educazione secondo la quale rispondere “Bene” alla domanda “Come va?” è un peccato di hýbris che si pagherà prima o poi.
Ma lui non mi dà retta e prosegue con la sua visione del mondo. “Mario Vargas Llosa, uomo di destra, onesto, cristallino, privo di doppio fondo: io lo stimo; e anche Gabriel Garcìa Màrquez – ne parlavamo proprio recentemente in un bar, e bada bene che ha settant’anni –; insomma, tutti gli scrittori che ho conosciuto, erano sempre ossessionati dal tempo che restava.”
Ma poco ne resta anche a noi, e mi dispiace.
La mattina dopo, quando me ne sono andato, Raùl ha voluto esserci, per salutarmi. Ci siamo trovati nella hall all’ora prestabilita, mi ha detto che secondo lui non sono sì lombardo, ma anche un po’ cubano (?), e ci siamo abbracciati, schiaffeggiandoci le gobbe con affettuosi ceffoni.
L’ho guardato a lungo, dal finestrino del taxi che mi ha portato in aeroporto: un uomo normale, in giacca e maglione amaranto, in piedi, sulla porta di un albergo norvegese. Non mi toglierò mai dagli occhi la sua faccia, quando in un tardo pomeriggio in cui il tramonto non arrivava più, dopo il sorso di birra con cui ha asciugato l’ultimo bicchiere, mi ha detto: “Vuoi un consiglio? Scrivi più che puoi, mi raccomando.” E schioccando la lingua, gettandomi un’occhiata beffarda: “Ma ogni tanto lascia cadere la penna. Ogni tanto scappa via.”