La Grande Metafora

Da Il Foglio,

Non di solo pane vive l’uomo. Anche di Grandi Metafore, che per l’appunto dilagano. Basta sfogliare i giornali o farsi un giro in rete per rendersene conto: la Metafora sorge spontanea. La Metafora ha una sua forza, infatti è più forte di noi. E si sprigiona dal nulla, sgorga, sbuca da chissà dove, si impossessa di ogni nostro ragionamento e prospera spargendo i semi di altre metafore che in poco tempo cresceranno e si abbarbicheranno a ogni nostro tentativo di lettura del reale, imprigionandolo in un’allettante vischiosità. La Metafora ipnotizza chiunque con le sue malie travalicanti, ma in fondo è comprensibile: perché accontentarsi di raccontare ciò che è davanti ai nostri occhi quando, grazie a un rapido processo di coagulazione simbolica fatto alla carlona, è possibile gettarsi nell’elaborazione di una Grande Metafora e accedere per direttissima al vertice dell’ostentazione lirica? Perché non farsi vincere? “Resisto a tutto, fuorché alle Metafore”.

È inutile scappare, nessuno ce la fa: la Metafora si acquatta e ci sorprende alla prima svolta, dietro il cantone di una subordinata, al prossimo giro di frase. La Metafora cova se stessa mentre è seduta sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere del Pensiero, ma attenzione, se Metafora deve essere, che sia Grande! Per quelle piccole non è epoca. Per carità, tutti abbiamo sentito parlare di un certo garage, di una sgangherata rimessa, di quello squallido magazzeno ai margini di un cortilaccio di periferia in cui giacciono, inermi e arrugginiti in mucchietti retorici, ingenui grovigli di metafore inutilizzate, ma è tutta roba a buon mercato, che non serve più, modelli superati, banali metafore ragionevoli e composte, di sartoria elementare e di modesto balzo metafisico, diciamo pure metaforine, metaforuzze, cosette adatte a una serata senza pretese, a un trafiletto su un gazzettino provinciale. A chi interessano? Oggi viviamo un’epoca sgargiante e le Metafore devono essere adeguate: tante e Grandi. Metafore di cilindrata minacciosa, sfacciata carrozzeria e portentose marmitte fumogene. Metafore onnipresenti e inquinanti che un giorno verranno castigate da una Greta Thunberg di passaggio, però appunto un giorno, domani o tra un secolo, chissà quando, l’importante è non pensarci adesso ma darsi da fare per sfamare la nostra percezione che, in perenne assetto-sbalordimento, ne richiede moltissime. Si esigono, dal Metaforizzatore, voce alta, gesto stentoreo e ormone visionario. Si esigono vere vertigini rappresentative. Si esigono cose che non siano solamente le cose ma altre – ulteriori e ben più emblematiche – perché è ormai evidente che una trama occulta ci bombarda con eventi di ogni genere e che molteplici letture in chiave metaforica siano l’unica condizione affinché acquistino un senso agli occhi dello sguardo collettivo. L’elaborazione di una Grande Metafora è dunque un atto poietico, è lo spoiler supremo, un guizzo impudente che maramaldeggia tra il vaticinio e lo scatto filosofico, la superiore forza cognitiva che fa cadere il velo di Maya e snida tutte le verità infrattate nel bosco profondo delle cose.

Premessa pratica per l’aspirante Metaforizzatore: non spaventarsi, in realtà per costruire una Grande Metafora e fare bella figura non serve molto, i materiali non costano granché e sono di facile reperibilità. Il segreto sta nel metterli in correlazione, ricordandosi che in ogni Grande Metafora deve sempre affiorare una matrice moraleggiante. Guardarsi intorno, prendere appunti: ogni indignato permanente ravvisa Grandi Metafore ovunque e produce un brulicare di prefigurazioni retoriche isteriche e di successo. “Il terremoto è una metafora di questo Paese in perenne crisi. Ma il popolo italiano c’è ed è unito.” Riflettere anche su come la potenza della Grande Metafora non si serva di forze razionali, ma di vietume ben apparecchiato: la seconda frase, infatti, smentisce seccamente la prima (se il popolo italiano fosse unito davvero, come potrebbe un Paese essere in crisi?) ma tanto nessun lettore lo noterà, appagato dalla cupio dissolvi con vago spiraglio che gli abbiamo servito – questo si desidera da una Grande Metafora.

Tentiamo ora un’analisi e proviamo a cogliere fior da fiore tra Rete, siti di giornali, articoli di carta. “Edilizia metafora del Paese: Maurizio Cocchi racconta Le mani nella città”. “Schettino: il comandante che abbandona la nave grande metafora del Paese”. “Roma città distrutta: secondo la CNN è declino, grande metafora del Paese”. “Le reazioni all’Amaca si Serra, metafora del Paese”. “Il degrado del linguaggio, metafora del declino occidentale”. “Il tram bloccato? Efficiente metafora del Paese”. “Idiocracy: metafora del genocidio culturale della società contemporanea”. “Il disprezzo per gli Emo, grande metafora del degrado italico”. “Pompei, un crollo continuo: metafora dei mali d’Italia”. “Il grande spirito, film di Sergio Rubini, è un ritratto della nostra contemporaneità traslato al nostro passato…” (uh, tenetevi forte, qui si trasla) “...metafora di abusi, diritti violati e depredazioni ai danni dei più deboli”. “Telecom, Bernabé: la società è una metafora del Paese”. “La grande metafora che ci avviluppa e sorregge la Grande Bugia del ragionier Mario Monti”. “Il Grande Fratello, sublime metafora di un Paese vippato”. “Giusi Merli: il teatro è la più grande metafora del Paese”.
Chiaro come il gradiente moralistico della Grande Metafora preveda una serie di scelte verbali e formule ricorrenti, tra le quali, per esempio, l’uso dell’aggettivo “italico”, che accostato a “degrado” sembra garantire un accento più disgustato ed esacerbato del semplice “degrado italiano”. Inoltre bisogna prestare attenzione alle Metafore occulte e in agguato, dette anche Metafore in due tempi: se in un titolo di giornale compare la formula “sistema-Paese”, quella è una spia che il tasso di indignazione dell’articolo sarà al colmo e basterà una goccia per far traboccare il vaso della Grande Metafora, che infatti traboccherà. Anche quando si comincia a blaterare di “vicenda paradigmatica” o di “società” (meglio ancora: della “nostra società”, di “questa società”) di solito basta chiudere un momento gli occhi per sentire come, dalle verdi Vallate dell’Ovvio, stia già spirando uno zefiro di vituperazione che entro tre paragrafi dovrebbe generare una folata di Grandi Metafore, senza il turbine delle quali la geremiade civile non decolla. Altra caratteristica riscontrabile nella Grande Metafora è la sua banalità meccanica, occultata in ghingheri para-intellettuali perché sembri partorita dopo lungo e straziante atto di pensiero. In realtà una Grande Metafora di Qualcosa la si può trovare ovunque, ed essendo una querimonia sintetica conta di più la sua forza motrice che il contenuto. Se ben posta, la Grande Metafora sembra più di quel che è: appare come il passe-partout del recondito, o il codice di accesso a un’epifania arricchita di quel blend paranoico che ammalia facilmente – dopotutto lo scopo della Grande Metafora non è mai proporre un ragionamento, semmai rafforzare un preconcetto condiviso. È un travestimento eccentrico, ma di tessuto dozzinale.

Le vicende meteorologiche si prestano moltissimo all’elaborazione di Grandi Metafore. Ovviamente non si intende, qui, mancare di rispetto a persone che hanno vissuto eventi davvero terribili ma, al contrario, l’obiettivo è sottolineare una volta per tutte come della più cinica assenza di sensibilità si macchi proprio chi parli di una tragedia cedendo a ridicole enfasi declamatorie. “Il terremoto è la grande metafora di come l’Italia sia inerme di fronte a ogni catastrofe naturale”. (Vien da chiedersi: e chi non lo è? Chi non lo sarebbe? Chi può dirsi certo di opporre a una “catastrofe” la prontezza esemplare di una reazione all’altezza? Siamo alle solite: anziché l’urgenza di raccontare, a chi scrive preme la certificazione della propria intrepida intelligenza da sciamano dei significati inaccessibili.) “Alluvione, il dramma di Benevento è la grande metafora del Sud”. “Vajont, la metafora di una nazione infetta”. “Serie Raiuno, L’Aquila grandi speranze. Luca Barbareschi: contento di aver fatto questa opera epica in cui il terremoto è metafora di qualcos’altro”. “Michele Emiliano: stato di emergenza, il Gargano è la metafora della Puglia che non si arrende mai”. (A proposito di linguaggio & politica: Maurizio Martina, da ministro, era un instancabile erogatore di metafore. I siti ne traboccano. Ne riporto due. La prima, maggio 2014: “L’Expo si farà, sarà metafora del cambiamento del Paese.” La seconda, novembre 2016: “Canale Cavour, metafora del Paese: riqualificare territorio.” Innegabile, tuttavia, una certa coerenza narrativa interna.)

E veniamo al mondo dello sport, che erutta Grandi Metafore a getto continuo. Si potrebbero citare veri e propri cottimisti della Metafora, ciascuno coi suoi vezzi espressivi al punto che un solo articolo non basterebbe a classificarli tutti: si mietono metafore a dismisura, per scopi vari ed eventuali e contraddittori. “Il Sud fuori dal Giro d’Italia grande metafora del Paese”. “Il Giro d’Italia metafora del Paese: una festa di popolo che nella maglia rosa riconosce un simbolo di virtù”. I sillogismi di Arrigo Sacchi, poi, si stagliano nella Poetica del genere: “Il calcio è la metafora della vita sociale, politica ed economica del Paese, in forma più eclatante. Quindi, se il calcio non va bene, vuol dire che anche il Paese non va bene.” (E Socrate è una locomotiva perché fischia.) Antonio Socci: “L’esclusione dai Mondiali è umiliante. Mi chiedo se non sia la metafora perfetta di un Paese che è stato portato alla disfatta, alla subalternità e all’insignificanza”. “Ottobre 2018, Volley, le Azzurre in finale: e se diventassero metafora del nostro Paese?” (Oddio, non è disponibile, per le fanciulle, un futuro un poco più eccitante?) “Il Triathlon è una grande metafora di vita per tutti anche chi non pratica sport affronta nella vita mille sfide costruisce la sua #resilienza cadendo e rialzandosi ripartendo dal punto di caduta senza mollare” (sic). “Se c’è un Paese simbolo di resilienza, quello è il Nepal”. (Unica conclusione possibile: una pallavolista italiana che faccia triathlon in Nepal indossando una maglia rosa assurgerebbe in un colpo a uno status metaforico definitivo e difficilmente contendibile.)

Più recentemente, è l’incendio di Notre-Dame che ha permesso di far guadagnare preziosi punti-cialtroneria a molti partecipanti dell’Olimpiade della Grande Metafora. Chi non ha assistito allo scempio? Mentre le guglie della cattedrale tracollavano per un incendio dovuto a un cortocircuito, ne scattava un altro: quello del mondo che si incollava a una tastiera e dava l’assalto al cielo della Grande Metafora, partorendo tweet, post ed editoriali gremiti di riferimenti eccedenti. E smaltita la prima ondata di cantieristi da tastiera che criticavano l’operato dei vigili del fuoco e scodellavano suggerimenti; esaurita l’esecrabile ola dei sovranisti in piena esultanza social-piromane; tollerato anche il salto nel vuoto dei trapezisti della numerologia domenicale… ecco che, grazie a un nutrito plotone di aedi della figura retorica, sotto i nostri occhi le fiamme non erano più solo fiamme, ma si trasformavano in Grandi Metafore: ora dello sgretolamento dell’Occidente, ora della crisi di Macron, ora della crisi del Liberismo – quasi sempre sfrenato – nonché l’ignizione apocalittica di ogni cultura e valore ovviamente occidentale. In equilibrio spericolato sulla cresta di questa montata vaneggiante, lo psichiatra Claudio Mencacci che, raggiunto il giorno dopo dall’Adnkronos Salute, non riusciva a far meglio di così: “Un incendio inatteso, che ci mostra come le fiamme possono divampare da un momento all’altro in un’Europa che, perdonatemi la metafora, sta scherzando col fuoco.” Igienico soprassalto di consapevolezza: la metafora può essere qualcosa per cui chiedere perdono.

Tutti pazzi per la Grande Metafora, va bene: ma la patologia può essere presa sottogamba? Questa multipla e scadente elaborazione retorica rappresenta solo un melodrammatico rito collettivo, un gargarismo anti-razionale, un ennesimo trionfo del percepito? O c’è altro? Forse c’è l’impazzimento ormai certificato di questa nostra sfinente auto-fiction che modella la realtà e brucia l’attesa di ogni spiegazione con le istanze di un realismo magico-nevrotico che dice tutto e il contrario di tutto. Certo, a voler prendere sul serio le Grandi Metafore della Rete, si direbbe che il mondo sia prossimo alla fine. Anzi, forse è già finito e noi non ce ne siamo accorti, intenti a fare e disfare la tela penelopesca della Grande Metafora infinita. Forse stiamo vagando, senza meta e gravità, nello spazio vuoto di una Metafora che si sta chiedendo di cosa è Metafora. Sarà un viaggio bellissimo. (semicit.)